Anna Maria Panzera
catalogo della mostra Sogno di un nuovo mondo - opere recenti Museo dell'Antica Grancia, Serre di Rapolano (Siena), 2001, p. 33-37
La ricerca del senso delle cose è operazione da minatori, da cercatori d'oro. Difficile vedere esattamente quello che si dipana sotto i nostri occhi, mentre i riflessi sull'acqua c'ingannano e ci fanno immaginare ricchezze sommerse. Il latente, celato dietro i veli del visibile, ci chiede di mettere in moto sufficiente fantasia, così da cambiare lo stimolo della percezione, e la risposta che ne consegue, in presenza che arricchisca l'oggetto del nostro sguardo, che lo riconosca in ogni piega del suono comunicato, che soprattutto non lo depauperi.
Quando poi l'oggetto in questione è un manufatto artistico, spesso chiede precipuamente di non essere capito (almeno nell'accezione più consueta del termine) ma solo d'essere guardato, per poter parlare quel linguaggio tutto suo in piena libertà, per poter sperimentare se l'espressione riesce ad arrivare alla comunicazione pur parlando a gesti, con linee e con colori. Spesso straniero in patria, l'artista potrebbe chiedere al critico di farsi da parte, o almeno d'intraprendere la fatica di liberarsi dal sovraccarico delle nozioni acquisite, alla ricerca di quella scaglia d'oro, sfuggita alla corrente del già noto. Senza sprecare il bagaglio d'informazioni che giustamente devono essere date a chi s'avvicina all'opera ed all'autore sconosciuti.
Con questo pretenzioso intento, mi accingo a guardare le tele che Franca Marini, durante una visita nel suo laboratorio senese, sposta agilmente da una parete all'altra, da una stanza all'altra del locale, posto su una magnifica collina senese. La luce della giornata, piovosa ma accesa a tratti da lingue di sole che riescono a penetrare la cortina delle nuvole, ha una parte importante nel contesto della situazione; benche ci si aiuti con la luce artificiale e benche successivamente lo studio delle opere sia completato da fotografie eseguite con perfetta illuminazione, l'impressione di quella giornata rimane, aggiungendosi e mischiandosi agli sguardi lanciati dopo su quelle stesse immagini riportate su pellicola, alle parole scritte a distanza di tempo ancora maggiore. L'autrice me ne vorrà per questo?
Ma no, è lei che mi racconta di amare i cieli dai toni arancioni e grigi, o gli azzurri interrotti dal bianco convulso dei cirri. Credo di capire che la sua fantasia corra sulle tracce della memoria che si trasforma in gesto prima che in pensiero e cerco di fare altrettanto dopo il suo invito a scrivere di lei. Guardo i quadri: privilegiate le terre con accensioni improvvise di gialli e di rossi; una linea talvolta continua, talvolta spezzata, talvolta nera, talvolta colorata fino a sfumarsi nello sfondo; quest'ultimo porta al centro di una percezione particolarissima, che ogni tanto prova a prevalere sul resto della composizione.
I quadri di Franca mi danno l'impressione di qualcosa di noto e qualcosa d'innovativo. Non posso non confrontarli immediatamente con gli eventi che nell'anno corrente sembrano essere fra i più rilevanti: le mostre romane di Calvesi e Bonito oliva sul Moderno e sulla contemporaneità; l'ultima Biennale veneziana che, uscita con qualche ferita dalle recenti edizioni attraversate da polemiche millenarie e da effettive cadute di stile, sembra essersi imposta quest'anno con la freschezza di talenti giovanissimi, finalmente scelti sull'onda del gusto personale dell'attuale curatore, Harald Szeemann. Senza fare vaste ricostruzioni ed analisi specifiche su ciascun evento, già presenti in versioni innumerevoli sulle riviste specializzate, rilevo ciò che a tutti è evidente. Nella compresenza fra i mezzi più moderni che la tecnologia oggi possa offrire e le pratiche tradizionali, molti dei prodotti che vengono offerti ai nostri occhi trasudano un'anima concettuale, che non riesce ad appassionarmi, in verità neanche ad interessarmi o ad incuriosirmi se non limitatamente ai miei doveri di storico.
Mia inibizione personale? La difendo e ne faccio un'identità di pensiero, perchè nell'arte cerco altre cose e perche sono consapevole di agire un rifiuto legittimo verso operazioni estetiche che a mio parere appoggiano un'ideologia antiumanista e velenosa. Tuttavia il confronto mi sembra utile: il panorama nazionale ed internazionale delle discipline estetiche si apre ai giovani artisti, Franca Marini è una giovane artista; fra l'altro, ha con loro in comune un lungo training ed un'attività espositiva al di fuori dei circuiti nazionali, in quell'ambiente oltreoceano che difende una politica forse più intelligente nei confronti dei nuovi talenti, di quanto non si faccia qui da noi. Dunque Franca si è certamente trovata a contatto strettissimo con le tendenze attualmente in voga: l'immancabile video-art, il moderno futurismo della computer-art, le fotografie sofisticate, le performances, l'uso più o meno patologicamente segnato del corpo fra alcuni artisti, la multimedialità, le installazioni e via dicendo. Tuttavia, la sua espressione è rimasta legata a modi, se vogliamo, meno avanguardisti, allungandosi ancora sulle morbidezze della materia pittorica, sul bel segno, sul bel colore.
Se per alcune delle opere precedenti - qui non in mostra - nella pittura di Franca Marini si potevano rilevare degli elementi in comune con la Transavanguardia (per la presenza della materia pittorica sapientemente modulata, per l'imporsi della figura e delle sue implicazioni semantiche, per il richiamo continuo fra elementi riconoscibili e segni meno immediatamente interpretabili, che denotavano un'atmosfera che a volte sfiorava il simbolismo o forse una resistenza ad abbandonare miti personali e familiari), oggi le sue tele ci parlano di una precisa "controtendenza" assunta dalla pittrice. Nel l984 Giovanni Testori, a proposito dei nuovi pittori della Transavanguardia, affermava: "A differenza di quella dei loro padri, la loro protesta non risulta di natura sociale o ideologica: bensì torrentiziamente esistenziale; forse, addirittura, imperquisibilmente fetale. (...) Sanno, questi pittori, che la cecità dell'uomo non può più farsi dipendere, come un tempo si credeva, da questo o da quel potere, bensì, e brutalmente, da quella condizione di base che è il nascere; quasi che il cordone ombelicale d'ogni uomo fosse legato a un grumo oscuro, a un oscuro cespo di cupezza, di rovina e di morte"(1).
Sono convinta che l'analisi di Testori rispecchiasse abbastanza fedelmente la base teorica sulla quale si spostava (e forse si muove a tutt'oggi) la Transavanguardia, anche se è possibile che qualche artista abbia avuto da ridire di fronte ad affermazioni così perentorie. Di sicuro, però, le immagini che Franca Marini fa emergere dalle sue tele non si muovono in quest'ambito: visto che vi si legge la certezza che la condizione di base cui Testori si riferisce non è origine e ragione di cecità; piuttosto di creatività, potenzialità, apertura progressiva degli occhi su un mondo di colori e di forme che aspettano di essere trasformate dalla fantasia dell'artista in immagini visibili.
È quello il mondo che riempie i quadri in mostra? Che si traduce negli elementi di astrazione lineare e cromatica? A me pare che ci si trovi di fronte ad un vero e proprio movimento a ritroso - sia lungo la linea su cui attualmente si svolge la storia dell'arte, sia lungo il tracciato personale dell'autrice - che, lungi dal rappresentare un'involuzione del gusto e della ricerca, s'impone invece come originalità. Forse sarebbe meglio ancora dire "originarietà".
Provo a spiegare meglio ciò che voglio intendere. Attualmente l'arte contemporanea, foraggiata da un numero impressionante di curatori di mostre e di artisti, mostra una spiccata tendenza alla pratica della citazione, più o meno consapevole, di quanto fu prodotto dai nomi ormai storici dei movimenti nati negli anni sessanta e settanta del Novecento. In un interessante articolo apparso sul numero 227 di "Flash Art"(2), lo storico dell'arte Marco Senaldi ha tratteggiato un quadro assai veritiero della situazione, sottolineando come la fondamentale povertà d'idee dell'arte contemporanea corrisponda anche ad un'estrema debolezza del pensiero. Questa debolezza, lungi ormai dal poter essere proposta come un atteggiamento mentale (come ho già detto, ripercorrente le tesi delle filosofie antiumaniste, le quali hanno da tempo perduto la loro spinta provocatoria e la loro densità cerebrale, dissolvendosi nell'unica realtà della loro inconsistenza teorica e propositiva), ha portato gli artisti al crocevia esistente tra la ripetizione di prodotti ormai divenuti canonici (performances ed installazioni comprese), e l'immissione degli stessi nel mercato dell'arte. Anche quando il visibile, offerto agli occhi di spettatori sempre più indifferenti (d'altra parte, non viene richiesto alcun atteggiamento critico), prova ad essere detestabile o a suscitare quel famoso "perturbante" di freudiana memoria, sinceramente non provoca che qualche ammiccamento, subito annacquato nei drinks e nelle amabili conversazioni del vernissage.
La stessa critica d'arte è divenuta raffinato esercizio retorico e persuasivo e, quando partecipa con gli artisti alla ricerca del successo, ama perdersi nei meandri del "concetto": non esiste una ricerca del significato e del senso dell'arte (come giustamente afferma Senaldi, insieme alla ricerca del "nuovo", questi sono valori troppo legati al Moderno, perciò demodè), non esiste una ricerca sull'identità dell'artista, del quale è sempre più difficile ricostruire un percorso che non sia solo estetico, ma anche umano; anzi, che sia estetico in quanto umano: convinti come siamo che l'arte non possa prescindere dalla persona ed in questo confortati dal parere di uno studioso che non può essere tacciato di passatismo: Harold Rosenberg(3).
Senza dubbio, perciò, Franca Marini è da dichiarare fuori moda. Nei suoi quadri non solo è visibile un percorso, ma questo ci porta addirittura indietro nel tempo, a quando - prima degli anni sessanta e soprattutto settanta - l'operazione avanguardista di distruzione della figura e della forma era prolungata a cercare l'emergenza del segno e significava ancora il tentativo di trovare il linguaggio dell'inconscio, la sinteticità delle prime espressioni, l'indefinitezza delle prime immagini di vita. Ciò che tutti gli uomini cercano, ciò che solo gli artisti riescono a rappresentare; ciò che fa arrovellare gli studiosi nel tentativo di comprendere se quell'immagine presentata come assoluta ed indiscutibile è veramente tale o è un inganno, se è davvero libera espressione o è falsificazione.
Per far questo, è doveroso comprendere se il percorso a ritroso di cui sopra si parlava è puramente formale, oppure è un percorso a ritroso compiuto dall'artefice dall'esteriorità verso l'interiorità, la propria. Qui, messo a nudo, il suo animo si schiude ai nostri occhi, con coraggio e con orgoglio. Nessun concetto, nessuna dichiarazione d'intenti, nessun materiale innovativo. Le tele si colorano e s'impastano di pennellate corpose, alcune linee si dipanano o s'aggrovigliano in risultanze sfumate di forme geometriche, accenni di forme, qualche lettera. È l'Informale? Action painting? Pittura materica? Poesia concreta? Scrittura visiva? Definizioni per dire tutto e niente. A partire dal l988, anno in cui Franca è approdata sulle coste americane, e forse anche da prima, dal tempo delle prime apparizioni di fronte ad un pubblico italiano, le sue prove pittoriche sono indubbiamente mutate. Caratterizzati da un pesante tratto nero, molti suoi quadri presentavano un legame assai stretto con temi figurativi e con tratti di pensiero cosciente, a mano a mano concretizzato in forme geometriche o umane, che attualmente sono completamente scomparse.
La materia cromatica, invece, rimane deformabile e densa, plasmata con modi quasi espressionistici, in grado di produrre atmosfere diverse: calore vitale nei rossi -arancio, neri respingenti, bianchi aperti e ricettivi. Accanto a questi elementi squisitamente pittorici, si ritrova una linea che sembra essere quella delle prime prove artistiche: in realtà, tanto allora essa serviva a racchiudere, tanto si qualificava come contorno, quanto oggi tende a muoversi sulla tela in maniera apparentemente arbitraria. Non contiene più alcuna figura, ma questo non le impedisce di dilatarsi fino a farsi forma essa stessa: una forma a volte aspra, quasi da xilografia, soprattutto quando s'appoggia sugli sfondi chiari. Altre volte è un reticolo che sembra trattenere fili di memoria, immagini percepite e dimenticate, che riemergono solo se richiamate da quello stimolo infallibile che scatta nell'appoggiare il pennello alla tela. Colori trattenuti nei lembi di stoffa di un vestito d'arlecchino e poi lettere, forme, suoni. Come l'impronta della voce udita d'un amico, rimasta aggrappata ai tessuti molli dell'interiorità, dove combatte ancora con le armi puntute o ricurve di una verità che s'impone.
La storia racconta della ricerca sul segno e del tormento legato al segno che si fa scrittura. Chissà se la pittura soffre di un'invidia appassionata e amorosa nei confronti di quelle piccole tracce, sospettate di possedere il segreto della creatività, che il colore da sempre ha voluto per sè.
Di certo, non si può negare che l'arte contemporanea sia tutta giocata nel confronto con il linguaggio (e questo riporta Franca nell'attualità più cocente); nonostante ciò, quando una lettera s'appoggia ad un supporto che comunemente non le è proprio, come può essere una tela, i quesiti sui termini saussuriani di langue e parole, di senso e di significato, s'intensificano e si complicano; le teorie linguistiche e semiologiche più accreditate non danno risposte pienamente soddisfacenti (anche se importantissimo è stato il loro contributo alle poetiche visive), mentre l'arte - nel sottrarre la scrittura al suo ruolo denotativo - corre il rischio di relegare la stessa ad un livello puramente decorativo. Nel passaggio dalla scoperta gestuale del segno pittorico degli anni cinquanta del Novecento, fino alle più recenti prove di scrittura visiva di autori come Accame, l'ingresso delle grafie in pittura è spesso (sempre?) stato caratterizzato da un'attitudine prevalentemente razionalista ed analitica che, a mio parere, ha infatuato la critica ma ha snaturato la ricerca e contributi non rilevanti sono venuti dagli appelli fatti alle teorie psicoanalitiche tradizionali.
Tuttavia, oggi la direzione più vitale dell'esplorazione artistica è quella che procede non solo nell'ormai acquisita certezza dell'esistenza di un legame tra la parola e l'immagine di tipo non ecfrastico, ma soprattutto nell'intento di recuperare l'immagine dentro la parola, dentro la lettera, non solo a livello di risultanza grafica. Il problema, però, rimane quello di non cadere nei territori dell'astrazione, della cerebralità, della religione; il problema è quello di trovare nella propria umanità la radice del linguaggio - anche verbale - che esiste prima dell'apprendimento. A questo si faceva riferimento, quando prima si parlava del percorso a ritroso nell'interiorità. L'artista che intraprende tale percorso si scontra inevitabilmente con il pensiero secondo cui il linguaggio è solo frutto di ragione.
Credo che Franca Marini si sia divincolata da questa impasse e che la sua linea, anche quando rende il tributo forse dovuto alle acquisizioni della lingua scritta, rimanga libera di muoversi, separandosi o mescolandosi al colore, ma affrancandosi sempre dalla rigidità del pensiero astratto. Sembra che, scomparso l'oggetto dalla pittura, l'autrice non si sia trovata di fronte a quel "vuoto", che tanto preoccupava Kandinskji da condurlo alle sue composizioni così poco improvvisate, anche se assolutamente non figurative, dove il ragionamento e le melodie dei numeri facevano da struttura invisibile ai segni tracciati. Qui l'unica struttura presente (se tale si può chiamare), sembra essere quella della fantasia, i limiti interiori a mano a mano scompaiono e restano solo quelli, cercati, del supporto. Qui sembra che non ci sia paura della soggettività e dell'emotività, forse neanche dell'interpretazione. Il compito, però, sarà lasciato allo spettatore.
(l) G. Testori, Ritorna il fantasma di Edipo, in "II corriere della Sera", l4 novembre l984
(2) M. Senaldi, Niente di personale. La fragilità teorica dell'arte contemporanea, in "Flash Art", anno XXXIV, n. 227, aprile - maggio 2OOl
(3) cfr. H. Rosenberg, L'arte è un modo speciale di pensare, a cura di M. Cianchi, U. Allemandi & C, Torino - Londra 2OOO