Robert C. Morgan
catalogo della mostra Franca Marini Universal Language Queens College Art Center, New York 2009, p.61-63
traduzione: Caroline Brachetti Montorselli, Nancy Podimane
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Il vero esame per un' opera d'arte è il modo nel quale trasmette le idee che ci toccano emotivamente e che nel fare questo rimangono contemporanee. Per un' opera rimanere contemporanea significa che essa vive e respira nel presente, che è in qualche modo viva e in contatto con l’esperienza del presente quotidiano. L’artista italiano Maurizio Nannucci una volta disse “tutta l’arte è stata in un dato momento contemporanea”. Noi potremmo aggiungere che se un lavoro artistico è veramente significativo – ritornando indietro di 32.000 anni alle caverne del Paleolitico nel sud della Francia – deve rimanere contemporaneo. Infatti se un’ opera non conserva la profondità indicativa del suo tempo, perde il suo senso di essere nel presente. Tuttavia la nozione di arte che esiste nel presente non deve essere confusa con opere che seguono una particolare tendenza – quest’ultima è una condizione dei mezzi di comunicazione commerciali. Le tendenze hanno poco a che fare con l’arte. Piuttosto esse rappresentano un tipo di apparenza superficiale che sfugge velocemente invece di restituirci un’esperienza effettiva costruita con reale sostanza.
In qualche modo iniziai a pensare a questo problema studiando l'installazione, intitolata Universal Language, di Franca Marini, la scorsa settimana mentre visitavo il Queens College Art Center di New York. Qual' è la qualità che rende il suo lavoro contemporaneo? Ci sono cinque gruppi di forme astratte ritagliate da una carta traslucida, un tipo di pergamena sintetica usata nei disegni architettonici, con sopra applicati diversi strati di olio e tempera. In quest’opera sono compresi altri materiali, inclusa la pittura a spray per scurire le aree della carta insieme a delicate fibre di canapa, sorrette con spago, corda e filo di rame. Non si pensa alla resistenza o alla permanenza, in relazione a questi materiali. Il lavoro sembra piuttosto effimero. Essenzialmente, l’installazione della Marini – avvolta intorno ad una sequenza di finestre di vetro che circondano l’atrio al piano superiore dell’edificio – è costruita sulla base di un’attenta e calcolata ispirazione. Come i romanzi di Thomas Mann, la scrittura metaforica rappresentata dalle forme è fatta per apparire leggera ed in volo, come se non ci fosse gravità.
Ho considerato la sublimazione del desiderio nel lavoro della Marini, l’abilità della mente di cogliereun conflitto sommerso e trasformarlo in qualcosa di positivo. La maggior parte della grande arte - da Picasso a Chagall a Carla Accardi - si è sviluppata in relazione a questo punto di vista, sia che il metodo sia stato reso conscio o inconscio. Nel caso di Universal Language, credo che sia una combinazione di entrambi. Mentre c’è un chiaro percorso che scaturisce dall’inconscio alla realtà cosciente, vi è ancora un chiaro e determinato senso di sperimentazione nello scoprire dove e come i frammenti della carta ritagliata andranno collocati, come questi elementi saranno legati o tirati, e come l’esatta tensione del filoreggerà, insieme ad altre decisioni. Nell' unire gli elementi insieme, la Marini va alla ricerca di un effetto globale, una tenacia ed un’integrità conformi alla sua intenzione. Concentrarsi sui dettagli è una cosa, ma percepire la totalità dell'opera è qualcos'altro. Infatti, non si può separare l'uno dall’altro così facilmente. I dettagli devono funzionare indirettamente nell’installazione proprio come le pennellate eseguite in micro secondi di De Kooning richiedevano momenti di riflessione in relazione al precedente gesto.
Senza chiarezza nel collegare le forme, il senso dello spazio non esiste. Piuttosto che vedere un continuum tra i cinque aggregati che circondano la finestra dell’atrio, si potrebbe vedere un miscuglio di frammenti isolati rimossi dal concetto di totalità. Per la Marini, è la concezione olistica che gioca pesantemente nel suo lavoro. Il processo implica un tipo di archeologia dove i vasi rotti vengono scavati fuori dalla terra e gettati nell’aria. La connessione tra i frammenti sospesi nell’aria è molto reale. Noi capiamo intuitivamente e metaforicamente che questi frammenti devono intrinsecamente appartenere l’uno all’altro. Non ci può essere errore. La precisione della loro collocazione è essenziale alla poesia e la poesia è essenziale sia alla struttura che alla risonanza. Inoltre, la dimensione estetica arriva alla vista attraverso l’atto della percezione che concomitantemente riflette su cosa noi stiamo vedendo, mentre la nostra esperienza è confinata al luogonel quale il lavoro risiede, anche se solo per una durata temporanea. Lo sforzo mentale contenuto nel lavoro della Marini – che è emotivo tanto quanto concettuale - è ciò che sostiene la nostra memoria di Universal Language come un oggetto olistico intenzionale.
Per la Marini arrivare ad una soluzione formale, che a sua volta offre un’esperienza in senso fenomenologico, richiede che il percorso di crescita ed evoluzione attraversi un numero di interessanti e significativi stadi. Scrivendo sui precedenti dipinti dei paesaggi metaforici dell’artista – se posso usare questa descrizione - tredici anni prima, enfatizzavo l’espressione narrativa che a quel tempo sembrava implicita nel suo lavoro. Nel 1996, essere una pittrice senese che viveva e lavorava a New York era di primaria importanza. Qualche traccia di ciò è ancora presente nella sua recente installazione. Tuttavia, lei ha traversato molti passaggi da quando ha cominciato la professione di pittrice. Già nel 2001, l’artista era giunta dai paesaggi metaforici ad un più esplicito uso della scrittura nel suo lavoro. Questa tecnica generale di scrittura conduceva ad un'astrazione in cui gli elementi lineari giocavano una funzione importante nel suo lavoro. Questa tendenza era presente in un’esposizione organizzata quell’anno dal Museo dell’Antica Grancia a Serre di Rapolano. Quattro anni più tardi, la Marini presentava ancora un altro gruppo di lavori alla Galería Nacional a San José, Costa Rica in cui includeva pittura spray su grandi fogli di carta nei quali dei fili si estendevano da un taglio della superficie interiore al muro esterno. Questo lavoro rivelava una transizione nella pittura della Marini dai dipinti-linguaggio del 2001 alla nozione ibrida che un dipinto potrebbe esistere come un’installazione e che potrebbe estendersi al di là della struttura. Perciò, potrebbe anche esistere al di là della limitazione del mezzo.
Già nel 2008 la Marini aveva scartato la nozione convenzionale del dipingere a favore dell’uso dei materiali nello spazio reale. Questo si è manifestato sotto forma d'installazione allo Studio Arte fuori Centro a Roma. Intitolato Urban Lines, l’artista ha usato come medium il video per descrivere lo spazio nel quale grappoli e aggregati di linee, derivate da vari materiali, s'intrecciano e s'intersecano l’una con l’altra. Mentre si può intravedere la struttura di una griglia policromatica sullo sfondo, si può anche leggere ciò che appare come dei fasci caotici di condotti d’aria e tubature di rame piegate mescolate con legno e carta. Il caos, comunque, è solamente l’apparenza di una struttura in realtà altamente sofisticata - ancora reminiscenze delle superficie astratte trovate in molti dipinti astratto-espressionisti. Ciononostante, ora la pittura della Marini esiste nello spazio reale.
Faccio riferimento a questa traiettoria di evoluzione nel lavoro della Marini per spiegare che il suo percorso dal dipinto all’installazione non è stato un fenomeno improvviso. Come molti artisti, che costantemente affrontano le proprie intenzioni in modo da offrire una guida alla plasticità senza usurparne, la Marini ha impiegato anni per progredire tra la miriade di passaggi risultanti in quello che lei è oggi. Comunque, c’è un’altra imprevedibile analogia che potrei aver scoperto studiando le forme ritagliate di carta nell'installazione al Queens College. Le forme suggeriscono un legame con la natura, il che vuol dire che non sono stati pensati esclusivamente da una prospettiva interna. Mentre le forme della Marini possono essere state calcolate in relazione agli spazi esterni tra le finestre che circondano l’atrio circolare, l’origine delle forme suggeriscono uno stile di libertà biomorfica che fa riferimento ai dipinti esposti nel 1996 all’Elizabeth Harris Gallery a New York.
Per esempio, le forme delle nuvole in questi dipinti che contengono, o una volta contenevano, figure di angeli nei cieli sopra i paesaggi, hanno una stretta relazione con le forme astratte ritagliate usate nell’attuale installazione. Questo può suggerire che gli angeli sono implicitamente presenti anche in Universal Language. Questa, naturalmente, è un’idea poetica, ma anche un significante della pittura senese dove sono presenti moltitudini di angeli. In questo caso, sto pensando specificatamente a Sassetta. L’altra curiosa affinità è relativa al dipinto allungato di Pollock del 1948, intitolato Summertime. Ad intervalli regolari tra i suoi vortici di gocce e colate, vi sono racchiuse figure biomorphiche che assomigliano alle ritmiche punteggiature formali del lavoro della Marini.
Ciò che ho trovato appagante, riguardo a queste figure metaforiche, è che Universal Language chiude la lacuna tra il Rinascimento Italiano, come un fenomeno storico isolato visto all'interno di un’istituzione come The Metropolitan Museum of Art, e l’immaginazione dello spettatore di pensare alla leggerezza e alla potenziale trasformazione del desiderio, mentre agiamo all'interno dello spazio terreno di una biblioteca digitalmente avanzata. Può sembrare che Franca Marini abbia dotato questa biblioteca di un'opera che non è solo contemporanea, ma anche un dono. Universal Language sana il divario tra le componenti secolari e spirituali iscritte nel modo in cui riflettiamo sulla natura dell’arte e sulla condizione umana che interviene all'interno di questo processo.