University of Siena, Palazzo San Galgano, Via Roma 47, Siena March 24 2023 h 5pm
presentation of the book DIAGONALE DI LUCE by Francesco Mazzarini
anthology about Nidaa Badwan Palestinian artist and photographer read news
speech by Franca Marini women's rebellion and artistic creation
All’interno dei movimenti di libertà dai regimi dittatoriali portati avanti in questo momento storico soprattutto dall’insurrezione delle donne, la vicenda umana e professionale di Nidaa Badwan è particolarmente significativa in quanto non solo donna ma anche artista. Essa ci spinge a riflessioni su una molteplicità di temi estremamente attuali, prima di tutto sul significato e l’importanza della creazione artistica laddove abnorme e sistematica è la violazione dei diritti umani, in particolare nei confronti delle donne. E’ possibile per tali regimi tollerare l’identità di una donna artista? Mi riferisco non solo al governo di Hamas nella Striscia di Gaza, ma anche alla Repubblica islamica in Iran nonché al regime talebano in Afghanistan ripristinatosi nell’Agosto del 2021 dopo il ritiro dei contingenti Nato e che ha determinato l’immediata perdita da parte delle donne di diritti e libertà conquistati nei due decenni precedenti. Come sappiamo, ciò che accomuna questi regimi, così come altri, vedasi Arabia Saudita, è una interpretazione della legge islamica che giustifica un attacco, che può diventare mortale, non solo all’identità delle donne, ma addirittura al loro corpo, tentatore e peccaminoso – percezione questa del corpo della donna che ha permeato, attraverso il cristianesimo, anche la storia della nostra società occidentale.
L’altro tema che infatti varrebbe la pena approfondire, ma mi limiterò per questioni di tempo a qualche breve accenno, è in quale misura l’immagine di donna artista viene accettata nel mondo occidentale dove la libertà di espressione è garantita sia agli uomini che alle donne.
Per comprendere appieno l’importanza della storia di Nidaa, vorrei “(…) ricordare che la popolazione di Gaza, dal 2007, con la presa di potere da parte di Hamas, è stata oggetto di una duplice oppressione e limitazione delle libertà personali: da una parte l’assedio e il blocco imposto da Israele e dall’altra il processo di islamizzazione voluto dal governo (…)” che ha colpito in maniera particolare le donne. Inoltre, “con l’arrivo al potere di Hamas si determina l’arresto dello sviluppo culturale nella Striscia voluto dall’ala più ortodossa attraverso la chiusura di centri d’arte, associazioni culturali e sportive, il divieto fatto ad artisti di esibirsi in pubblico, come ai rappers”. (1)
Introduco qui brevemente una mia storia personale e cioè quando, spinta dalla determinazione a dare un contributo come artista alla causa palestinese, tra il Dic 2014 e il Gen 2015, mi recai nella Striscia di Gaza grazie al progetto di scambio culturale organizzato da Meri Calvelli, direttrice del Centro Italiano a Gaza VIK, fondato in memoria di Vittorio Arrigoni. Erano trascorsi pochi mesi dalla fine dell’aggressione militare israeliana Margine Protettivo, tutta la Striscia era ancora in macerie.
Effettuerò delle riprese per un’opera di video arte il cui protagonista sarà un ragazzo che attraverso il Parkour sogna la libertà, sogna di uscire da Gaza e condurrò un workshop con le studentesse e gli studenti del dipartimento di Arti Visive della Al Aqsa University. Cio’ che soprattutto tengo a ricordare è l’incontro con le studentesse che costituivano la maggioranza del mio workshop. Ricordo ancora oggi con commozione quelle “straordinarie (…) giovani promettenti artiste, costrette nei lunghi ed eleganti vestiti tradizionali, le teste coperte dal hijab, intente a sradicare con determinazione dal terreno rami secchi, pezzi di lamiera arrugginiti per la realizzazione delle loro opere oppure dipingere sui muri di Gaza City a fianco degli studenti maschi nonostante il divieto da parte del direttivo della loro università (…) che dal 2013 ha introdotto un codice di abbigliamento femminile ed imposto classi separate.” (2)
Ricordo l’entusiasmo con cui una dopo l’altra mi descrivevano i progetti che intendevano realizzare, la convinzione nel creare le loro opere. Sentivo un contrasto stridente tra la forza delle loro idee e l’obbligo ad indossare quegli ingombranti abiti tradizionali che impacciavano i loro movimenti durante il lavoro nello studio.
Mi sentii travolta dalla loro energia e vitalità, da quell’impeto passionale verso il loro lavoro d’artiste che forse nasceva dall’ intuire la portata del riscatto dall’oppressione della loro condizione femminile insita nella realizzazione artistica, insita nell’affermazione della loro capacità di creare e d’immaginare.
Il ricordo di quella loro determinazione oggi risuona con forza con quella di Nidaa che contemporaneamente, nello stesso momento a Gaza, senza che io lo sapessi, stava portando avanti tra le pareti della sua camera la sua lotta silenziosa.
Credo che l’arte non sia, non possa essere riproduzione della realtà. L’artista, per essere tale, deve saper accedere ad una dimensione interna di fantasia che trascende il percepito cosciente. Solo così la rappresentazione della realtà diventa prefigurazione di un oltre, di una speranza dalla quale può scaturire la bellezza.
Nidaa Badwan, serie 100 giorni di solitudine
Questo processo è evidente nelle stupende foto di Nidaa raccolte nel libro Diagonali di luce. In particolare vorrei soffermarmi sulla serie di autoritratti Cento giorni di solitudine dove la sua stanza viene da lei ricreata attraverso un uso sapiente dei colori ed una ricerca personalissima della luce fino a trasformarla in un universo immaginifico, in quel suo spazio interiore con cui la sua immagine si fonde.
Nidaa Badwan, serie 100 giorni di solitudine
L’espressione artistica in contesti dittatoriali o laddove l’annullamento dei diritti umani della persona ha generato orrori indicibili – pensiamo ai 30.000 disegni rinvenuti nei campi di sterminio nazisti – assume un’ulteriore, specifica valenza e cioè quella di opposizione vitale all’annientamento della propria persona. Immaginare è forse l’unico diritto umano che nessun regime per quanto violento riesce ad eliminare. Per Nidaa, quindi, chiudersi nella sua camera ed annullare la realtà esterna potrebbe aver significato non solo mettere in atto la sola possibile pacifica opposizione e difesa da un “violentatore” esterno ma anche il tentativo di ritrovare e proteggere, attraverso l’autoimposta reclusione, la propria dimensione di vitalità e creatività interiore che materializzatasi poi nei suoi scatti fotografici paradossalmente la porterà ad un esito opposto, all’aprirsi verso il mondo, verso la realtà esterna.
E’ importante sottolineare che Nidaa Badwan vince l’oppressione e l’isolamento attraverso il suo lavoro d’artista; attraverso la sua identità di donna che si oppone sia alla violenza di un regime maschilista che a quella di una potenza occupante - che di fatto nega uno dei diritti fondamentali della persona, quello della libertà di movimento e che ha fatto di Gaza “la più grande prigione a cielo aperto” - ma anche in quanto artista poiché i suoi scatti fotografici hanno determinato nel mondo là fuori da Gaza un impatto emotivo. Lo hanno determinato poiché mere opere d’arte in cui l’artista è riuscita a trasformare il racconto della sua storia individuale in un anelito universale alla libertà.
Esiste un’arte femminile ed una maschile? Credo che il discorso artistico trascenda la questione di genere. La creatività artistica è un aspetto specifico della creatività umana, una potenzialità che affonda in pulsioni profonde non coscienti e originarie poiché proprie dell’essere umano e che non può essere categorizzata in nessun modo. L’arte è per antonomasia un linguaggio universale, capace di suscitare emozioni, creare una risonanza con gli altri indipendentemente da cultura, origini, razza e genere.
Certo è che la lotta d’emancipazione all’interno di regimi totalitari portata avanti anche dalle donne artiste può raggiungere un carattere particolarmente sovversivo ma credo sia impossibile anche solo ipotizzare che, laddove alla donna è richiesta umiliazione, sottomissione e passività, possa esserle concessa l’identità di artista in quanto niente più dell’immaginazione sfugge ad ogni forma di controllo.
La repressione verso le donne, come purtroppo sappiamo, può essere mortale… molte delle artiste afghane e iraniane anche di fama internazionale sono oggi costrette all’esilio dove con la loro arte possono però sostenere le battaglie delle donne nei loro paesi d'origine - come le artiste iraniane Shirin Neshat o Shiva Ahmadi - oppure continuano ad operare in anonimato sui social, come la prima street artist donna afghana Shamsia Hassani.
Shamsia Hassani, Kabul, Afghanistan
Voglio però ricordare l’incredibile coraggio delle donne performers che si sono esibite cantando e danzando senza il velo a Teheran l’8 marzo in occasione della Giornata Internazionale della Donna delle quali è stato diffuso in rete un video. Cito inoltre la piattaforma Iranian Women Of Graphic Design oggi aperta a designers iraniani e non i cui lavori, le cui immagini sono state usate per le proteste sia on line che nelle strade di tutto il mondo.
Iranian Women of Graphic Design
https://designby-women.com/iranian-women-of-graphic-design/
Ricordo infine il gruppo AIA Artist Iranian Anonimous con sede in Iran e nel resto del mondo costretto all’anonimato ma che continua a creare nonostante gli arresti e le minacce di morte ricevute anche dai familiari degli artisti che compongono il gruppo. Di AIA ricordo l’installazione realizzata al Guggenheim Museum di New York il 22 Settembre scorso: improvvisamente, senza nessuna anticipazione per i visitatori presenti, dall’ultimo piano del museo sono stati calati 12 banner rossi con la scritta, in arabo e in inglese, Donna Vita Libertà e lo stencil nero del volto della ragazza 22enne Mahsa Amini, brutalmente uccisa dalla polizia morale in Iran pochi giorni prima e la cui morte ha determinato la rivolta, ancora in corso, delle donne in Iran.
AIA Artist Iranian Anonimous Guggenheim Museum di New York, 22 Settembre 2022
Storicamente arte e regimi totalitari non sono mai andati di comune accordo, basti ricordare la denominazione di arte degenerata data dal regime nazista alle opere dell’arte moderna, in particolare dell’espressionismo. L’arte ha in sé un elemento rivoluzionario poichè propone immagini non consolatorie e prefigura nuovi scenari, propone una trasformazione attraverso nuovi linguaggi e contenuti anche se talvolta non immediatamente riconoscibili come tali o accettati dal resto della società.
Nuovi linguaggi e nuovi contenuti di cui si sono fatte artefici, all’interno del panorama dell’arte contemporanea occidentale, anche molte importanti donne artiste, certamente in numero più alto rispetto al secolo precedente.
Dati Miur alla mano, il numero di studentesse iscritte ai Licei Artistici e alle Accademie di Belle Arti è di gran lunga superiore a quella degli studenti, un trend che non riguarda solo l’Italia. Tutto l’opposto se invece consideriamo il numero di artiste donne ai vertici dei più alti livelli internazionali o ai numeri dei più prestigiosi premi d’arte contemporanea assegnati in larga misura ad artisti uomini.
Sembra che la nostra società fatichi, anche in campo artistico, a riconoscere alle donne uguali potenzialità e meriti degli uomini. E’ però vero che talvolta condizionamenti culturali e sociali incidano sulle artiste stesse, spesso non altrettanto determinate dei colleghi maschi a portare avanti la propria ricerca artistica e a vederne riconosciuto il valore. Determinazione invece necessaria innanzitutto a non sopprimere o a non permettere ad altri di negare la propria fantasia d’artista come Nidaa Badwan e anche le mie stupende studentesse Gazawi hanno dimostrato di saper fare.
(1) Franca Marini. Lo spazio è limitato, le nostre idee non lo sono in Left, n.52 30 Dic 2017-5 Gen 2018 p.18
(2) ibidem
L’altro tema che infatti varrebbe la pena approfondire, ma mi limiterò per questioni di tempo a qualche breve accenno, è in quale misura l’immagine di donna artista viene accettata nel mondo occidentale dove la libertà di espressione è garantita sia agli uomini che alle donne.
Per comprendere appieno l’importanza della storia di Nidaa, vorrei “(…) ricordare che la popolazione di Gaza, dal 2007, con la presa di potere da parte di Hamas, è stata oggetto di una duplice oppressione e limitazione delle libertà personali: da una parte l’assedio e il blocco imposto da Israele e dall’altra il processo di islamizzazione voluto dal governo (…)” che ha colpito in maniera particolare le donne. Inoltre, “con l’arrivo al potere di Hamas si determina l’arresto dello sviluppo culturale nella Striscia voluto dall’ala più ortodossa attraverso la chiusura di centri d’arte, associazioni culturali e sportive, il divieto fatto ad artisti di esibirsi in pubblico, come ai rappers”. (1)
Introduco qui brevemente una mia storia personale e cioè quando, spinta dalla determinazione a dare un contributo come artista alla causa palestinese, tra il Dic 2014 e il Gen 2015, mi recai nella Striscia di Gaza grazie al progetto di scambio culturale organizzato da Meri Calvelli, direttrice del Centro Italiano a Gaza VIK, fondato in memoria di Vittorio Arrigoni. Erano trascorsi pochi mesi dalla fine dell’aggressione militare israeliana Margine Protettivo, tutta la Striscia era ancora in macerie.
Effettuerò delle riprese per un’opera di video arte il cui protagonista sarà un ragazzo che attraverso il Parkour sogna la libertà, sogna di uscire da Gaza e condurrò un workshop con le studentesse e gli studenti del dipartimento di Arti Visive della Al Aqsa University. Cio’ che soprattutto tengo a ricordare è l’incontro con le studentesse che costituivano la maggioranza del mio workshop. Ricordo ancora oggi con commozione quelle “straordinarie (…) giovani promettenti artiste, costrette nei lunghi ed eleganti vestiti tradizionali, le teste coperte dal hijab, intente a sradicare con determinazione dal terreno rami secchi, pezzi di lamiera arrugginiti per la realizzazione delle loro opere oppure dipingere sui muri di Gaza City a fianco degli studenti maschi nonostante il divieto da parte del direttivo della loro università (…) che dal 2013 ha introdotto un codice di abbigliamento femminile ed imposto classi separate.” (2)
Ricordo l’entusiasmo con cui una dopo l’altra mi descrivevano i progetti che intendevano realizzare, la convinzione nel creare le loro opere. Sentivo un contrasto stridente tra la forza delle loro idee e l’obbligo ad indossare quegli ingombranti abiti tradizionali che impacciavano i loro movimenti durante il lavoro nello studio.
Mi sentii travolta dalla loro energia e vitalità, da quell’impeto passionale verso il loro lavoro d’artiste che forse nasceva dall’ intuire la portata del riscatto dall’oppressione della loro condizione femminile insita nella realizzazione artistica, insita nell’affermazione della loro capacità di creare e d’immaginare.
Il ricordo di quella loro determinazione oggi risuona con forza con quella di Nidaa che contemporaneamente, nello stesso momento a Gaza, senza che io lo sapessi, stava portando avanti tra le pareti della sua camera la sua lotta silenziosa.
Credo che l’arte non sia, non possa essere riproduzione della realtà. L’artista, per essere tale, deve saper accedere ad una dimensione interna di fantasia che trascende il percepito cosciente. Solo così la rappresentazione della realtà diventa prefigurazione di un oltre, di una speranza dalla quale può scaturire la bellezza.
Nidaa Badwan, serie 100 giorni di solitudine
Questo processo è evidente nelle stupende foto di Nidaa raccolte nel libro Diagonali di luce. In particolare vorrei soffermarmi sulla serie di autoritratti Cento giorni di solitudine dove la sua stanza viene da lei ricreata attraverso un uso sapiente dei colori ed una ricerca personalissima della luce fino a trasformarla in un universo immaginifico, in quel suo spazio interiore con cui la sua immagine si fonde.
Nidaa Badwan, serie 100 giorni di solitudine
L’espressione artistica in contesti dittatoriali o laddove l’annullamento dei diritti umani della persona ha generato orrori indicibili – pensiamo ai 30.000 disegni rinvenuti nei campi di sterminio nazisti – assume un’ulteriore, specifica valenza e cioè quella di opposizione vitale all’annientamento della propria persona. Immaginare è forse l’unico diritto umano che nessun regime per quanto violento riesce ad eliminare. Per Nidaa, quindi, chiudersi nella sua camera ed annullare la realtà esterna potrebbe aver significato non solo mettere in atto la sola possibile pacifica opposizione e difesa da un “violentatore” esterno ma anche il tentativo di ritrovare e proteggere, attraverso l’autoimposta reclusione, la propria dimensione di vitalità e creatività interiore che materializzatasi poi nei suoi scatti fotografici paradossalmente la porterà ad un esito opposto, all’aprirsi verso il mondo, verso la realtà esterna.
E’ importante sottolineare che Nidaa Badwan vince l’oppressione e l’isolamento attraverso il suo lavoro d’artista; attraverso la sua identità di donna che si oppone sia alla violenza di un regime maschilista che a quella di una potenza occupante - che di fatto nega uno dei diritti fondamentali della persona, quello della libertà di movimento e che ha fatto di Gaza “la più grande prigione a cielo aperto” - ma anche in quanto artista poiché i suoi scatti fotografici hanno determinato nel mondo là fuori da Gaza un impatto emotivo. Lo hanno determinato poiché mere opere d’arte in cui l’artista è riuscita a trasformare il racconto della sua storia individuale in un anelito universale alla libertà.
Esiste un’arte femminile ed una maschile? Credo che il discorso artistico trascenda la questione di genere. La creatività artistica è un aspetto specifico della creatività umana, una potenzialità che affonda in pulsioni profonde non coscienti e originarie poiché proprie dell’essere umano e che non può essere categorizzata in nessun modo. L’arte è per antonomasia un linguaggio universale, capace di suscitare emozioni, creare una risonanza con gli altri indipendentemente da cultura, origini, razza e genere.
Certo è che la lotta d’emancipazione all’interno di regimi totalitari portata avanti anche dalle donne artiste può raggiungere un carattere particolarmente sovversivo ma credo sia impossibile anche solo ipotizzare che, laddove alla donna è richiesta umiliazione, sottomissione e passività, possa esserle concessa l’identità di artista in quanto niente più dell’immaginazione sfugge ad ogni forma di controllo.
La repressione verso le donne, come purtroppo sappiamo, può essere mortale… molte delle artiste afghane e iraniane anche di fama internazionale sono oggi costrette all’esilio dove con la loro arte possono però sostenere le battaglie delle donne nei loro paesi d'origine - come le artiste iraniane Shirin Neshat o Shiva Ahmadi - oppure continuano ad operare in anonimato sui social, come la prima street artist donna afghana Shamsia Hassani.
Shamsia Hassani, Kabul, Afghanistan
Voglio però ricordare l’incredibile coraggio delle donne performers che si sono esibite cantando e danzando senza il velo a Teheran l’8 marzo in occasione della Giornata Internazionale della Donna delle quali è stato diffuso in rete un video. Cito inoltre la piattaforma Iranian Women Of Graphic Design oggi aperta a designers iraniani e non i cui lavori, le cui immagini sono state usate per le proteste sia on line che nelle strade di tutto il mondo.
Iranian Women of Graphic Design
https://designby-women.com/iranian-women-of-graphic-design/
Ricordo infine il gruppo AIA Artist Iranian Anonimous con sede in Iran e nel resto del mondo costretto all’anonimato ma che continua a creare nonostante gli arresti e le minacce di morte ricevute anche dai familiari degli artisti che compongono il gruppo. Di AIA ricordo l’installazione realizzata al Guggenheim Museum di New York il 22 Settembre scorso: improvvisamente, senza nessuna anticipazione per i visitatori presenti, dall’ultimo piano del museo sono stati calati 12 banner rossi con la scritta, in arabo e in inglese, Donna Vita Libertà e lo stencil nero del volto della ragazza 22enne Mahsa Amini, brutalmente uccisa dalla polizia morale in Iran pochi giorni prima e la cui morte ha determinato la rivolta, ancora in corso, delle donne in Iran.
AIA Artist Iranian Anonimous Guggenheim Museum di New York, 22 Settembre 2022
Storicamente arte e regimi totalitari non sono mai andati di comune accordo, basti ricordare la denominazione di arte degenerata data dal regime nazista alle opere dell’arte moderna, in particolare dell’espressionismo. L’arte ha in sé un elemento rivoluzionario poichè propone immagini non consolatorie e prefigura nuovi scenari, propone una trasformazione attraverso nuovi linguaggi e contenuti anche se talvolta non immediatamente riconoscibili come tali o accettati dal resto della società.
Nuovi linguaggi e nuovi contenuti di cui si sono fatte artefici, all’interno del panorama dell’arte contemporanea occidentale, anche molte importanti donne artiste, certamente in numero più alto rispetto al secolo precedente.
Dati Miur alla mano, il numero di studentesse iscritte ai Licei Artistici e alle Accademie di Belle Arti è di gran lunga superiore a quella degli studenti, un trend che non riguarda solo l’Italia. Tutto l’opposto se invece consideriamo il numero di artiste donne ai vertici dei più alti livelli internazionali o ai numeri dei più prestigiosi premi d’arte contemporanea assegnati in larga misura ad artisti uomini.
Sembra che la nostra società fatichi, anche in campo artistico, a riconoscere alle donne uguali potenzialità e meriti degli uomini. E’ però vero che talvolta condizionamenti culturali e sociali incidano sulle artiste stesse, spesso non altrettanto determinate dei colleghi maschi a portare avanti la propria ricerca artistica e a vederne riconosciuto il valore. Determinazione invece necessaria innanzitutto a non sopprimere o a non permettere ad altri di negare la propria fantasia d’artista come Nidaa Badwan e anche le mie stupende studentesse Gazawi hanno dimostrato di saper fare.
(1) Franca Marini. Lo spazio è limitato, le nostre idee non lo sono in Left, n.52 30 Dic 2017-5 Gen 2018 p.18
(2) ibidem